La Phytia
di Gabriella Prosdocimi
La Pizia e il mito dell'arte
di Giorgio Segato
LA PYTHIA

La Pizia e il mito dell'arte
di Giorgio Segato

Nel nostro tempo, in cui tutto è ormai esibito, esposto, guardato e visto in tempo reale, è sempre più problematico definire la funzione delle arti “visive”, dare un senso davvero “estetico” (cioè collegato alla sensività esterna e alla sensibilità interiore) all’operare del pittore, dello scultore, dell’incisore. Di fronte all’eccesso di immagini, di suoni, di informazioni, di condizionamenti dello sguardo e di visualizzazione preconfezionata del sapere, è tuttavia necessario che l’arte visiva torni a “straguardare”, a “stravedere”, riacquistando funzione di sollecitazione dell’immaginario individuale in direzione liberatoria, creativa, colta, partecipante e non vessatoria, costrittiva, omologante, mercantilistica.
I mezzi di comunicazione di massa, la televisione soprattutto offrono formule e modelli di superficialità stereotipata che contemplano risposte con la minore quantità e la minore qualità possibile di varianti, di espressioni personali, di implicazioni individuali. Così, nell’atrofia e nel silenzio si perde l’originale ricchezza della profondità psichica, lo spessore del vissuto sedimentato nella memoria dell’esperienza personale e in quella biologica, della dotazione genetica e della sensibilità direttamente esercitata. Il patrimonio mnestico è sempre più confuso con la dotazione dell’elaboratore elettronico, il viaggio introspettivo con la navigazione virtuale in internet.
Con questo non voglio demonizzare gli strumenti tecnologici, ma segnalare che a una progressiva acquisizione di nuovi mezzi come protesi che potenziano le capacità conoscitive e operative dell’uomo verso l’esterno – almeno sul piano della realtà virtuale e artificiale – sembra corrispondere una sempre maggiore difficoltà di introspezione, e di conoscenza, da parte del corpo e dei sensi che informano l’intelligenza naturale; così che si assiste na uno smarrimento della memoria lontana e a un enorme impoverimento della conoscenza materiale e strumentale diretta. E si perde di vista l’obiettivo fondamentale della cultura che è quel gmóthi seautón , “conosci te stesso” che era inciso proprio nel tempio di Delfi, dove la Pizia pronunciava oracoli oscuri a lei suggeriti dai sacerdoti come profezie. Nel “conosci te stesso” c’è, appunto, l’invito a far coincidere la coscienza individuale con l’anima collettiva, a ritrovare la dimensione personale nel flusso della memoria della specie, cui abbandonarsi connettendo il grembo della memoria genetica, cioè della madre e, attraverso questo, al grembo dell’universo, dove le energie si rigenerano. Nella sua ambiguità, l’espressione può anche indicare la necessità di avere ben chiare le domande da porre all’oracolo, per avere più precise risposte, ma mi pare più appropriato il senso che qualsiasi responso deve condurre a una introspezione e a una scoperta della verità dentro di sé, poiché in tutti gli esseri ci sono tracce dell’anima collettiva, ricomponendo le quali ciascuno può trovare la sua via alla verità. La Pizia, sacerdotessa di Apollo, seduta sul tripode collocato sull’ómphalo, il baricentro o ombelico del mondo individuato dalle aquile di Giove, entrava in una sorta di trance, o di euforia sensitiva, assumendo le esalazioni del chasma (un fumo che sortiva da una fenditura del terreno) e dava segni e suoni disarticolati che provocavano la visionarietà interpretativa dei sacerdoti. Il fascino metaforico del mito rinnova così la visione dell’arte come conoscenza e la funzione dell’artista come mediatore, interprete dell’oracolo e dunque demiurgo dell’immaginario, della capacità individuale di abbracciare, conoscere la realtà e se stessi.
La Pizia di Gino Fossali è dunque l’arte che sollecita la memoria visiva e interna. Col libro come emblema e trascrizione del mito, e col tripode come installazione, un po’ ironica (la presenza ambigua del tubo catodico che in parte assimila la funzione dell’oracolo alla mistificazione dell’oroscopo televisivo) e un po’ iniziatica (la scrittura apparentemente misterica e l’accompagnamento di suoni di percussioni, fiati e cori vocali in inni e peana), ma che comunque mira a creare un punto di focalizzazione del pensiero, di direzione dello sguardo e dell’ascolto immaginante, un “riferimento” di avvio dei pensieri che recuperano, nella citazione del mito, la memoria e una funzione di riappropiazione e rielaborazione.

Il tema è sviluppato attorno alla scultura in oricalco (ottone) del tripode che custodisce il libro e che contiene la figura del serpente (Pitone, che aveva cercato, per volere di Era, di impedire a Latona di sgravarsi di Apollo e Artemide, figli di Zeus, e ucciso da Apollo stesso a Delfi) in otto disegni fondamentali che ritornano in quadri più grandi, eseguiti a inchiostri e pastelli a olio su tela incollata su masonite, cui si aggiungono altri lavori sulle celebrazioni dionisiache, che si succedevano a Delfi, come espressione di gioia e di fervore creativo, di esaltazione dell’eros in quanto energia essenziale dell’esistenza, nei mesi freddi, quando Apollo svernava negli Iperborei.
“In uno spazio (tempo) privo di riferimento a qualsiasi valore, l’unica certezza è l’erotismo”, scrive Gino Fossali a cappello esplicativo del suo percorso dal kaos al sistema attraverso la catarsi, il sogno utopico, la decadenza, il ritorno nella notte e al kaos, e dalla perdita di valori all’erotismo come unica certezza, dall’autodistruzione alla rinascita “nella banalità di un disegno affidato al caso degli accadimenti”.
La tecnica scelta è grafico-pittorica, convocante una gestualità scritturale che mette in rapporto segno e spazio con voce e atmosfera, apparire della materia evanescente del mito come memoria e come mistero insieme, tra l’umano e il divino, tra la sensorialità, l’apparizione e la sublimazione in iridescenze cromatiche
Il racconto è suggerito da un ritmo segnico che non definisce i corpi, movendosi secondo una libera sintassi compositiva che dilata le suggestioni in evocazioni surreali (con certi risentimenti di Matta) di colori/fumi che assumono plasticità avvolgente, in azzurri, verdi e violetti che esaltano la incorporeità del segno e la contiguità/continuità tra interno ed esterno, tra fisico e psichico, tra voce dell’oracolo e voci di dentro, tra interiorizzazione del reale ed esternazione del sentimento, dell’eros, dell’energia vitale e germinale.
I ritmi di percussioni e le modulazioni di flauti o di archetti, che accompagnano l’allestimento, confermano l’intenzione di Fossali di ritrovare e restituire un’emozione sinestetica, e per quanto più possibile panica, di movimento di energia nello spazio, come mondo che partecipa della realtà, della memoria, dell’immaginazione del desiderio, del sogno. La densità atmosferica prodotta dai colori diventa spazio assorbente la sensitività, reggendo anche all’analisi del dettaglio, aumentando anzi la sollecitazione all’espansione percettiva dell’occhio ravvicinato che legge i segni ricomponendo le figure e le voci come se subisse esso stesso gli effetti delle esalazioni di Gea, la Madre Terra.

Evidentemente la Pizia è per Gino Fossali un pretesto per continuare la sua già lunga esperienza pittorica e, insieme, interpretativa della condizione dell’uomo, denunciando l’omogeneizzazione massmediale delle informazioni della cultura e dei comportamenti, ricercando con lo sguardo retrovisivo un momento di più alta comprensione e valorizzazione dell’umano, cioè di più alta ricchezza del mondo interiore e dei rapporti con la natura, proiettando nel segno e nel colore un desiderio di rinascita, di rinnovamento, di riaccensione dell’eros dionisiaco come riesplorazione, confidenza e riaffermazione del corpo, cioè della vita e, quel che più conta, della consapevolezza della vita e del suo” senso estetico”.

Giorgio Segato, 1998