Nel nostro tempo,
in cui tutto è ormai esibito, esposto,
guardato e visto in tempo reale, è sempre più problematico
definire la funzione delle arti “visive”, dare un senso
davvero “estetico” (cioè collegato alla sensività esterna
e alla sensibilità interiore) all’operare
del pittore, dello scultore, dell’incisore. Di fronte all’eccesso
di immagini, di suoni, di informazioni, di condizionamenti dello
sguardo e di visualizzazione preconfezionata del sapere, è tuttavia
necessario che l’arte visiva torni a “straguardare”,
a “stravedere”, riacquistando funzione di sollecitazione
dell’immaginario individuale in direzione liberatoria, creativa,
colta, partecipante e non vessatoria, costrittiva, omologante,
mercantilistica.
I mezzi di comunicazione di massa, la televisione soprattutto offrono
formule e modelli di superficialità stereotipata che contemplano
risposte con la minore quantità e la minore qualità possibile
di varianti, di espressioni personali, di implicazioni individuali.
Così, nell’atrofia e nel silenzio si perde l’originale
ricchezza della profondità psichica, lo spessore del vissuto
sedimentato nella memoria dell’esperienza personale e in
quella biologica, della dotazione genetica e della sensibilità direttamente
esercitata. Il patrimonio mnestico è sempre più confuso
con la dotazione dell’elaboratore elettronico, il viaggio
introspettivo con la navigazione virtuale in internet.
Con questo non voglio demonizzare gli strumenti tecnologici, ma
segnalare che a una progressiva acquisizione di nuovi mezzi come
protesi che potenziano le capacità conoscitive e operative
dell’uomo verso l’esterno – almeno sul piano
della realtà virtuale e artificiale – sembra corrispondere
una sempre maggiore difficoltà di introspezione, e di conoscenza,
da parte del corpo e dei sensi che informano l’intelligenza
naturale; così che si assiste na uno smarrimento della memoria
lontana e a un enorme impoverimento della conoscenza materiale
e strumentale diretta. E si perde di vista l’obiettivo fondamentale
della cultura che è quel gmóthi seautón , “conosci
te stesso” che era inciso proprio nel tempio di Delfi, dove
la Pizia pronunciava oracoli oscuri a lei suggeriti dai sacerdoti
come profezie. Nel “conosci te stesso” c’è,
appunto, l’invito a far coincidere la coscienza individuale
con l’anima collettiva, a ritrovare la dimensione personale
nel flusso della memoria della specie, cui abbandonarsi connettendo
il grembo della memoria genetica, cioè della madre e, attraverso
questo, al grembo dell’universo, dove le energie si rigenerano.
Nella sua ambiguità, l’espressione può anche
indicare la necessità di avere ben chiare le domande da
porre all’oracolo, per avere più precise risposte,
ma mi pare più appropriato il senso che qualsiasi responso
deve condurre a una introspezione e a una scoperta della verità dentro
di sé, poiché in tutti gli esseri ci sono tracce
dell’anima
collettiva, ricomponendo le quali ciascuno può trovare la
sua via alla verità. La Pizia, sacerdotessa di Apollo, seduta
sul tripode collocato sull’ómphalo, il baricentro
o ombelico del mondo individuato dalle aquile di Giove, entrava
in una sorta di trance, o di euforia sensitiva, assumendo le esalazioni
del chasma (un fumo che sortiva da una fenditura del terreno) e
dava segni e suoni disarticolati che provocavano la visionarietà interpretativa
dei sacerdoti. Il fascino metaforico del mito rinnova così la
visione dell’arte come conoscenza e la funzione dell’artista
come mediatore, interprete dell’oracolo e dunque demiurgo
dell’immaginario, della capacità individuale di abbracciare,
conoscere la realtà e se stessi.
La Pizia di Gino Fossali è dunque l’arte che sollecita
la memoria visiva e interna. Col libro come emblema e trascrizione
del mito, e col tripode come installazione, un po’ ironica
(la presenza ambigua del tubo catodico che in parte assimila la
funzione dell’oracolo alla mistificazione dell’oroscopo
televisivo) e un po’ iniziatica (la scrittura apparentemente
misterica e l’accompagnamento di suoni di percussioni, fiati
e cori vocali in inni e peana), ma che comunque mira a creare un
punto di focalizzazione del pensiero, di direzione dello sguardo
e dell’ascolto immaginante, un “riferimento” di
avvio dei pensieri che recuperano, nella citazione del mito, la
memoria e una funzione di riappropiazione e rielaborazione.
Il tema è sviluppato attorno alla
scultura in oricalco (ottone) del tripode che custodisce il libro
e che contiene la
figura del serpente (Pitone, che aveva cercato, per volere di Era,
di impedire a Latona di sgravarsi di Apollo e Artemide, figli di
Zeus, e ucciso da Apollo stesso a Delfi) in otto disegni fondamentali
che ritornano in quadri più grandi, eseguiti a inchiostri
e pastelli a olio su tela incollata su masonite, cui si aggiungono
altri lavori sulle celebrazioni dionisiache, che si succedevano
a Delfi, come espressione di gioia e di fervore creativo, di esaltazione
dell’eros in quanto energia essenziale dell’esistenza,
nei mesi freddi, quando Apollo svernava negli Iperborei.
“In uno spazio (tempo) privo di riferimento a qualsiasi
valore, l’unica certezza è l’erotismo”, scrive Gino Fossali a cappello esplicativo del suo percorso
dal kaos al sistema attraverso la catarsi, il sogno utopico, la
decadenza,
il ritorno nella notte e al kaos, e dalla perdita di valori all’erotismo
come unica certezza, dall’autodistruzione alla rinascita “nella
banalità di un disegno affidato al caso degli accadimenti”.
La tecnica scelta è grafico-pittorica, convocante una gestualità scritturale
che mette in rapporto segno e spazio con voce e atmosfera, apparire
della materia evanescente del mito come memoria e come mistero
insieme, tra l’umano e il divino, tra la sensorialità,
l’apparizione e la sublimazione in iridescenze cromatiche
Il racconto è suggerito da un ritmo segnico che non definisce
i corpi, movendosi secondo una libera sintassi compositiva che
dilata le suggestioni in evocazioni surreali (con certi risentimenti
di Matta) di colori/fumi che assumono plasticità avvolgente,
in azzurri, verdi e violetti che esaltano la incorporeità del
segno e la contiguità/continuità tra interno ed esterno,
tra fisico e psichico, tra voce dell’oracolo e voci di dentro,
tra interiorizzazione del reale ed esternazione del sentimento,
dell’eros, dell’energia vitale e germinale.
I ritmi di percussioni e le modulazioni di flauti o di archetti,
che accompagnano l’allestimento, confermano l’intenzione
di Fossali di ritrovare
e restituire un’emozione sinestetica, e per quanto più possibile
panica, di movimento di energia nello spazio, come mondo che partecipa della
realtà, della memoria, dell’immaginazione del desiderio, del sogno.
La densità atmosferica prodotta dai colori diventa spazio assorbente
la sensitività, reggendo anche all’analisi del dettaglio, aumentando
anzi la sollecitazione all’espansione percettiva dell’occhio ravvicinato
che legge i segni ricomponendo le figure e le voci come se subisse esso stesso
gli effetti delle esalazioni di Gea, la Madre Terra.
Evidentemente la Pizia è per Gino
Fossali un pretesto per continuare la sua già lunga esperienza
pittorica e, insieme, interpretativa della condizione dell’uomo,
denunciando l’omogeneizzazione
massmediale delle informazioni della cultura e dei comportamenti,
ricercando con lo sguardo retrovisivo un momento di più alta
comprensione e valorizzazione dell’umano, cioè di
più alta ricchezza del mondo interiore e dei rapporti con
la natura, proiettando nel segno e nel colore un desiderio di rinascita,
di rinnovamento, di riaccensione dell’eros dionisiaco come
riesplorazione, confidenza e riaffermazione del corpo, cioè della
vita e, quel che più conta, della consapevolezza della vita
e del suo” senso estetico”. |